Il giro del mondo in sei milioni di anni
Barbujani&Brunelli
Immaginiamo di trovarci tra l'Etiopia, il Kenya e la Tanzania, approssimativamente Africa dell'est, circa sei milioni di anni fa. Il clima diventa tutto a un tratto più secco, le grandi foreste si fanno rade, l'immensa e rigogliosa vegetazione lascia il posto a gruppi di bassi arbusti e ad ampi spazi. Animali che oggi assoceremmo alle nostre scimmie e affollavano i rami per la maggior parte del giorno sono costretti scendere. E la vita in basso è molto diversa. Adesso occorre sapersi arrangiare: per esempio per passare da un luogo sicuro a un altro, da un boschetto all'altro, occorre muoversi rapidamente prima di essere notati dai grandi predatori. E se spostandosi si riesce anche a dare un'occhiatina intorno, alzandosi sugli arti inferiori, tanto meglio: servirà a salvare la pelle. Il bipedismo potrebbe essere nato così.
E cosa ci fa un animale con le mani (o zampe anteriori) libere, se non gli servono più per camminare? Prima degli antropologi se lo devono essere chiesti gli stessi australopiteci. Soltanto doverci pensare è una cosa nuova. Tanto che probabilmente l'improvvisa espansione della loro scatola cranica (quindi del cervello) potrebbe essere una diretta conseguenza di tutto quel da fare e pensare improvviso. E così hanno cominciato a sperimentare, toccare cose, e poi maneggiarle, sino a forgiarvi, per l’appunto, manufatti. Con la nascita della tecnologia i primi ominidi si apprestavano a conquistare la vetta della catena alimentare e molto tempo dopo il mondo.
Non solo metaforicamente. Si andava davvero a colonizzare nuovo spazio. Perché, una volta a terra, c’era da rimediare il cibo, cacciare, raccogliere. Era molto tempo prima dell’invenzione dell’agricoltura: quando un luogo era stato completamente sfruttato e non aveva più niente da dare, l’unica era spostarsi. E poi spostarsi ancora. Di generazione in generazione i chilometri si sommano ed è così che siamo addirittura usciti dal continente nel quale eravamo "apparsi". Dall’Africa al Medioriente, poi qualcuno verso l’Europa e qualcun altro verso l’India. A mano a mano che ci si spostava – e ci si evolveva – i resti di chi moriva lasciavano una bandierina ora qua, ora là. Tanto che oggi, tracciando i fossili, possiamo ripercorrere a ritroso il viaggio dell’umanità.
Non solo, infatti i fossili "parlano": attraverso le ferite, i traumi, le patologie e quelli più recenti anche attraverso i geni (se c’è rimasto ancora del DNA). È questo il contributo che la genetica è in grado di dare alla storia: può dirci se c’eravamo, dove eravamo e quando eravamo. Con accuratezza scientifica, non basandosi cu vecchie e rimaneggiate carte (leggasi: Bibbia). E allora le scoperte sono tantissime. La storia delle migrazioni (elemento oggi tanto discusso) rivela l’uomo: come eravamo, cosa mangiavamo, come ci vestivamo, di quali malattie soffrivamo, come era il clima, a cosa eravamo destinati. Di certo rivela che l’uomo più che radici ha piedi. Da così tanto viaggiamo che ci siamo incontrati di nuovo milioni di volte e incrociati "infinite" volte. La riflessione, pur rimanendo scientifica, diventa quindi anche di carattere sociale: di fatto, dati alla mano, i genomi degli europei, degli americani e degli africani sono pressoché identici. A cambiare è, di ciascuno, semmai, l’aspetto. Questo dipende sì dai geni, ma anche dall'ambiente perché l'ambiente modula l'espressione dei geni (e quindi, in ultima analisi, l'aspetto esteriore).
Può capitare di confondere genotipo (semplificando: il corredo completo dei geni che possono esprimere o meno le relative proteine e quindi certi caratteri) e fenotipo (semplificando: i caratteri che effettivamente vengono espressi a partire dal genotipo. Non è detto che tutti i geni siano espressi e quindi si traducano in caratteri). Forzando un po’ intercorre la stessa differenza che c’è tra noumeno e fenomeno. Via, questo lo dico io… ma ci siamo capiti. L’odore della pelle, il colore degli occhi, la statura e simili costituiscono il fenotipo (così come le peculiarità metaboliche, etc.). Ma la "pasta" (genotipo: espresso e non espresso) di cui siam fatti è ben più complessa e condivisa. Facile quindi giudicare solo in base all’aspetto.
C’è molto da imparare in «Il giro del mondo in sei milioni di anni», del genetista dell’Università di Ferrara Guido Barbujani e del suo collaboratore Andrea Brunelli. Non solo puro nozionismo (che comunque male non fa) ma elementi di carattere storico, archeologico, antropologico, e molta, molta biologia. Del resto pretendere di capire la storia dell’umanità a partire da una, soltanto, delle «due culture» è proposito fallimentare. La materia è complessa, ma il passo è brillante e il tono della divulgazione chiaro, curioso e appassionante. Un libro consigliato sia a umanisti che appassionati di scienza, in generale a tutti i lettori, perché leggere serve a costruire una coscienza padrona del passato, critica del presente, con gli strumenti necessari a presagire il futuro. Il libro di Barbujani e Brunelli fa questo.